Trama e recensione de “La nona porta” di Roman Polanski

La filmografia di Roman Polanski merita continue re-visioni perché composta da opere sempre aperte. Per questa settimana consigliamo il suo “La nona porta” (1999) trasmesso in seconda serata su Rete4 alle 23.27. Tratto dal best-seller “Il club Dumas” dello scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, il film del regista polacco fin dalla sua uscita è derubricato ad opera minore all’interno del robusto corpus polanskiano. Quasi tutte le critiche vertono sulla mancanza di corrispondenza tra aspettative alte e risultato, a dir loro, modesto che pecca di grossolanità nell’ambiguo finale.

Finale “La nona porta”
Io la chiamo potenza, non grossolanità

Innanzitutto bisogna partire dalla sceneggiatura che asciuga l’originale libro di partenza dato che viene espunta tutta la parte relativa al capitolo mancante de “I tre moschettieri”, di Alexandre Dumas e si concentra esclusivamente sull’indagine attorno le tre versioni de Le Nove Porte Del Regno Delle Ombre, di Aristide Torchia (opera inesistente che qualche libraio affascinato dal Male si è divertito a produrre davvero).

Nel film Dean Corso è un iper-irrealista cacciatore di libri antichi incaricato dall’enigmatico Boris Balkan di ritrovarlo: siamo insomma dinanzi a un classico canovaccio da romanzo di genere basculante tra il tema esoterico e la detection avventurosa. Di fronte a una trama palesemente lineare che rinuncia da subito a complicazioni autoriali di sorta quel che serve alla sua riuscita è il ritmico dispiegamento dei suoi elementi di maggior attrattiva.

Attrattiva “La nona porta”
Ecco l’elemento di maggior attrattiva del film: le miniature sataniche

Fotografato con grande eleganza da Darius Khondji e musicato con squisito gusto evocativo da Wojciech Kilar, il film riesce benissimo nella dimensione “gialla”. Se non riesce a trasmettere l’inquietudine horror di “Rosemary’s baby” o quella psicologica de “L’inquilino del terzo piano” è perché ogni film è un tassello a sè e non un replica continua di temi o lutti.

Il Diavolo (o chi per lui), ha interferito più di una volta nella vita dell’ateo regista, lo sappiamo. Eppure quella specie di attrattiva luciferina imputatagli nasconde quasi sempre una sottile presa in giro della congrega dei suoi adoratori. Si veda ad esempio come ne “La nona porta” tutti millantino rapporti con l’Anticristo (la baronessa Kessler dice di aver avuto rapporti carnali con Lui) ma l’unico che davvero riuscirà a varcare il varco che conduce all’Oltretomba sarà proprio lo scettico Dean Corso.

La presa filosofica di distanza del regista dalla materia (esiste una rielaborazione del lutto, per chi non lo sapesse) gli consente paradossalmente una maggior aderenza ammaliatrice verso il tema. Lontano da toni aderenziali/sapienzali ma anche dall’invettiva sociologica, egli gioca con gli effetti di una credenza che seppur falsa produce brutalità di stampo demoniaco.

Conseguenze “La nona porta”
Il diavolo ucciderebbe in maniera così plastica?

Ambientato all’interno di un mondo profondamente bibliofilo che cerca l’evocazione del Male attraverso autentiche tracce (Lucifero si firma col simpatico tag LCF), il film è magnetico nel restituire il senso di quella ricerca.

A partire dalla carismatica figura del mercenario di opere culturali che nonostante il suo dotto lavoro crede solo nel denaro, “La nona porta” fa quasi sentire sulla pelle la polvere di quella letteratura. Due ore di grande cinema che racconta una bella storia e filmato con l’impareggiabile ironia di Roman Polanski: ad avercene di opere minori così.